I.W.G.P
Ikebukuro West Gate Park è una delle serie televisive che hanno fatto il Giappone. Praticamente tutti gli attori nella serie sono diventati super famosi, stile “Games of Thrones” dei tempi su scala nazionale però.
Siamo ancora negli anni 90, protagonista delle vicende è Makoto, un ragazzo libero, non troppo intelligente, ma molto considerato dai suoi coetanei, dotato di un grande senso di correttezza viene spesso coinvolto in situazioni spiacevoli. Dove per spiacevoli intendo omicidi, che aggiungono un po’ di suspence allo scorrere.
Lui crede nel territorio, Ikebukuro, uno dei quartieri storici di Tokyo, “Bukuro” come la chiamano.
Bukuro la immagino come una zona dove si radunano i giovani per divertirsi, almeno così è come io l’ho vissuta mentre mi caricavano sul VAN per portarmi alla pista di esercizio della patente della moto. Sembra che una volta fosse invece un quartiere abbastanza pericoloso perché era dove bazzicavano bande rivali.
Vederlo nel 2023 è stato un po’ come un tuffo nel passato: a parte il formato 4:3, delle immagini di verdure ritagliate malamente e fatte passare nella sigla. Porta in tavola con armonia tutti i temi, più o meno attuali del Giappone, tra le madri single, i salary man ubriachi e chi ha perso un parente per la Yakuza.
La sfrontatezza nel regista nel presentare scene non canoniche è lodevole, tra inquadrature dei protagonisti che si abbassano sulla telecamera o le gang che si avvicinano con fare minaccioso.
Pieno zeppo di chicche, come la mamma di Makoto che dopo aver cucinato gli yakisoba mette la pentola sopra dei libri poggiati sul tavolo: sembra che fosse una pratica comune per non rovinare il legno. Oppure la smania per lo sweety, che non è altro che l’oroblanco, cioè un ibrido tra pomelo e pompelmo.
L’ho guardato con un po’ di curiosità: ma cosa facevano queste persone quando non c’erano i social network?
Sicuramente avevano tutti questi mattoncini pieghevoli, chiamati cellulari, dove gli sms erano padroni.
Il ricordo di un’epoca sta svanendo poco a poco, quasi come se fosse diventata un pezzo di antiquariato da preservare in una teca.
Beh, facevano un po’ quello che facevamo noi, andavamo a giocare al bowling con gli amici, litigavamo con i nostri simili, poi le ragazze. Non c’era tanto la cultura del club, un po’ più quella della sauna, ma siamo lì.
Per bullizzare le persone, ai tempi si diceva: “vammi a comprare un pezzo di pane”. Questa frase rappresenta abbastanza bene quell’era: (quasi) tutto era un po’ più semplice. Pensateci, noi ci facevamo mandare e prendere il latte invece.
Erano tempi un po’ spensierati, in più non si sapeva che stavamo distruggendo il pianeta Terra.
Adesso si direbbe “ricaricami 0.039 Bitcoin sul mio conto”. E se vai al Mc Donald, sembra che nell’Happy Meal ti becchi una bella applicazione presupposto che tu abbia lo smartphone. E niente cannuccia o coperchio di plastica per la Sprite.
Ditemi che non è diventato più difficile stare al mondo, tra la scelta dei programmi Netflix, schivare la gente attaccata allo smartphone e i tappini delle bottiglie che si sono dimezzati in spessore.
Banalmente ci sono migliaia di applicazione da scegliere, e dai vecchi Street Fighter, Crash Bandicoot etc. con quattro tasti in croce (grossa profondità però) siamo passati a videogame per cui non basta tutta la tastiera.
Possiamo affermare tranquillamente che adesso la guerra si è spostata online: non solo quella vera, ma anche quella dei civili tra i commenti dietro la tastiera, i suicidi in diretta e le frecciatine pubbliche.
Una volta ci si chiariva facendo a pugni e con l’onore, adesso è passato un po’ di moda, si preferiscono coltelli o la demolizione online.
Non vorrei concludere con un “si stava meglio quando si stava peggio”, solamente una riflessione su come sono cambiati i tempi e sul fatto che, per chi c’era, quegli anni devono averci insegnato qualcosa.
Facevamo tutto in quel modo, perché eravamo limitati? Oppure perché eravamo liberi?