chiedere scusa

Con le parole e l’età, cambiano i comportamenti,  i modi di pensare, i concetti. Oggi vi vorrei parlare dello “scusarsi”, argomento che mi ha spesso portato a contemplare per lunghi momenti.

Partirò sfogliando il vocabolario:

← lat. excusāre, comp. di ĕx-, che indica privazione, e un deriv. di cāusa‘causa; colpa’.

Garzanti ci dice ancora poco sul significato. E allora procedendo:

discolpare, giustificare un comportamento altrui”

“Richiesta o concessione di giustificazione o di perdono per qualche mancanza commessa”. [Corriere]

Perdono di una lieve mancanza o offesa” [Treccani]

Garzanti non mi convince, in fondo non si tratta di “discolpare” qualcuno, si potrebbe benissimo pensare che la colpa sia sempre dell’altro, e pure non si tratta necessariamente dell’altro ma anche di sé stessi (“scusarsi”). “Giustificare” è invece più vicino nella sfumatura di “ammettere l’ammissibilità”.

Corriere aggiunge invece “perdono” che, coincidendo con “scusa” solo in parte, denota invece una marcatura più forte, e l’elevare l’interlocutore.

Ma senza addentrarsi troppo in discorsi intricati, cosa significa per voi “chiedere scusa”?

Per me significa: “ammettere le proprie responsabilità, ricercare la comprensione del prossimo, cercare di non ripetere un’ offesa”.

O almeno era questo per me, il significato più completo e profondo, ma crescendo e espatriando, non so se la prima la seconda o entrambe, ho rivalutato questo significato. O per meglio dire, l’ho adattato all’ambiente circostante per evitare un sacco di scocciature.

“Manifestazione di partecipazione ad un sentimento altrui di sconforto”

Perché chiedere scusa serve innanzi tutto a placare le acque e magari aprire la strada al discorso, mostrando una certa spiacevolezza rispetto ai risvolti di una situazione. Insomma è una parola che non si nega mai a nessuno, a prescindere da torti, per cui non bisognerebbe neanche tardare.

E’ vero che la prima non esclude la seconda e viceversa, ma utilizzarle con la stessa persona potrebbe portare a indesiderati fraintesi. Poi personalmente la seconda non mi garba più di tanto. E’ solo che funziona enormemente meglio.

E questa traslazione apre campo a un altro quesito non trascurabile. E’ giusto rinunciare a un caro concetto per adottarne un altro solo perché più socialmente accettabile? In realtà è una cosa che facciamo tutti giorni, dalle cose più innocue ad esempio nel chiedere “come va?” quando non siamo per nulla interessati, o a lasciar morire un’idea perché non conforme.

Ma ritornando a noi, una buona soluzione a questo problema porterebbe a distinguere due definizioni per chi è importante, e per chi non lo è. Per il fatto che ci si può riservare qualche parola in più per chi conta, e perché è meglio tagliarla corta con chi invece no.

E’ comunque possibile distinguere solo in parte ogni singolo comportamento a seconda della persona a cui ci troviamo di fronte, perché alla fine la persona con cui si relaziona è sempre solo la stessa.

Io personalmente cerco di orientarmi al significato originale, se colui a cui mi rivolgo e la situazione me lo permettono. La cultura c’entra, può significare crescita? Di sicuro si tratta di cambiamento.

 

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PS:

Pensavate veramente che avessi sfogliato il vocabolario?  nel 2016?

 

FONTI:
http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/C/concessione.shtml
http://www.garzantilinguistica.it/ricerca/?q=scusare
http://www.treccani.it/vocabolario/scusa/
IMMAGINE: https://pbs.twimg.com/

 

 

natale 3

Parte 1

Parte 2

Niente era più come prima.

L’avanzamento a della tecnologia aveva cambiato ogni cosa. Nel 2662 una trivella delle dimensioni di un transatlantico aveva scavato troppo a fondo nel mantello fino a provocare danni irreversibili al pianeta Terra. Una serie incontrollabile di esplosioni aveva quindi spinto i superstiti della razza umana ad evacuare cercando sopravvivenza altrove.

Le colonie in costruzione su Marte erano state sfruttate prima del previsto: enormi scudi erano stati innalzati per riflettere radiazioni solari e intere città erano state unite da corridoi che correvano per centinaia di chilometri lungo il pianeta. Mentre dall’esterno tempeste di vento si scagliavano con enorme violenza sulle strutture degli umani, le doppie porte a tenuta stagna avevano permesso di isolare un ecosistema sostenibile.

Ma quello scenario che molto tempo addietro aveva suscitato fascino nella razza umana, ora era accompagnato solo da rabbia e sgomento. Perché Marte con la sua natura ostile, aveva portato prevalentemente desolazione in un popolo dove la tecnologia non era bastata a guarire la profonda ferita causata dal disastro del ’62. Egoismo, guerra tra fazioni, ricerca di potere e denaro guidavano ancora le decisioni del genere umano.

Tuttavia lo stile di vita era cambiato radicalmente; si era persa in gran parte la capacità di esprimere sentimenti da quando ogni tipo di interazione era diventata possibile tramite l’uso di dispositivi microtecnologici, smesso di cucinare da quando le stampanti laser avevano permesso la creazione di cibi sintentici con elementi nutritivi pari agli originali. Inoltre l’istologia aveva rallentato sensibilmente l’invecchiamento delle cellule facendo l’uomo ancora più simile a macchina; alla ricerca costante di ottimizzare il consumo di tempo, auto programmato a portare a termine i propri compiti tanto da dimenticare il resto.

E perfino l’amore era diventato solo un freddo passatempo da quando la riproduzione del genere umano era stata affidata ad un unico supercomputer centrale, chiamato Eva. Gli orfani crescevano in centri dove venivano addestrati all’uso della tecnologia e sottoposti al puro nozionismo. La crescita dei bambini era diventata proporzionale all’assenza di vitalità, in quello che si era rivelato essere un tentativo fallito per tentare di portare ordine in un Mondo governato dal caos e dalla sfortuna, sfuggito dal controllo dell’essere umano.

Nonostante questo c’era ancora chi ricercava nei valori del passato la chiave per il futuro, come numero 4742 o come si faceva chiamare, Tairin. Sebbene prodotto di Eva, anche lei cresciuta senza famiglia, aveva invece qualcosa di speciale. E non era la catenella che culminava con una sfera di un colore turchese vivace, la coda legata da un nastro rosso scendeva fino ad accarezzare i fianchi perfetti, né la lunga gonna che lasciava un breve spazio scoperto prima di arrivare a due stivaletti molto semplici. Ma quei due intensi occhi di colore azzurro che ricordavano la purezza del mare più limpido, la calma della neve soffice, capaci di penetrare ogni barriera e raggiungere il cuore di ogni individuo.

Ed era una giornata come le altre quando entrò in uno di quei negozi che trattavano antiquariato, oggetti provenienti da un mondo i cui frammenti vivevano solo nelle parole e nei ricordi di alcuni. L’atmosfera ricordava un salotto di una vecchia casa terrestre; uno stravagante lampadario di cristallo pendeva dal centro della stanza, poltrone di tessuto color porpora erano accostate a tappeti tessuti a mano. Tairin conosceva bene quegli oggetti; uno di quei vecchi cellulari a conchiglia, una radio a valvole che recitava “clipper”, una serie di utensili per cucinare. Ma tra tutti, un oggetto in particolare catturò la sua attenzione: una graziosa scatoletta intarsiata, ricavata probabilmente da un albero terrestre, con un’iniziale incisa sul fronte “R”. Un lucchetto sembrava posto quasi a voler proteggere qualcosa di prezioso.

Tairin studiò per qualche minuto il bauletto. Avrebbe potuto essere anche vuota visto il peso quasi inesistente, il contenuto perso durante tutti questi anni di viaggio; non le rimase che chiedere spiegazioni. Dopo la conferma della presenza del contenuto, non restava che l’acquisto per ottenere la chiave e Tairin non esitò neanche un secondo ad impossessarsene. Sulla via del ritorno fantasticò su cosa avrebbe trovato all’interno, una foto in 2D di un paesaggio innevato, magari un braccialetto ereditato di generazione in generazione, oppure una gemma preziosa posseduta da un Re di altri tempi.

Rinchiusa al nella sua dimora, finalmente inserì la chiave nella toppa ed udì il suono tanto atteso “click”. Inebriata dal profumo del legno, attese qualche secondo prima di analizzare il contenuto. Una lettera! Il dolce rumore della carta che si piega, quella sensazione di fragile robustezza non tradirono le aspettative di Tairin. Sebbene gli anni avessero invecchiato la carta rendendola giallognola, le scritte ancora ben chiare recitavano così:

Caro Babbo Natale,

Scrivo queste due righe a te, Papà Natale.

Non so se sono stato bravo, ho fatto del mio meglio. Ho dato una mano a mio padre con il lavoro, sono riuscito a far sorridere Clara, sai, era da tanto che non sorrideva, a causa della sua malattia… Ah si, ho anche donato i miei guanti nuovi a un bambino che sembrava averne bisogno più di me… Ho una richiesta un po’ particolare, quest’anno. Prima devi sapere: sono due anni che aspetto, nella speranza di rivivere il Natale, sentire la sua atmosfera appieno: oramai non e’ più lo stesso… Non vedo più la magia. Non vedo la magia dell’albero di Natale, non mi sveglio più la notte sperando di riuscirti a vedere, non fremo la mattina, quando dovrei correre verso l’albero per vedere cosa hai lasciato. Quello che vedo ora, e’ un sorriso un po’ incerto, un sorriso di quelli che hanno da nascondere qualcosa. E quel qualcosa e’ dolore, mancanza e nostalgia e lo leggo nelle facce dei miei parenti, lo sento io per primo… perdonami Babbo, ma per quanto mi sforzi, non riesco proprio a vivere il Natale come vorrei. Lui non c’è più e io non me ne faccio una ragione, le sue mani calde e grandi non mi accarezzano più la faccia, mi manca la sua allegria contagiosa e le sua presenza… Quindi veniamo alla mia richiesta. Ecco, vorrei che anche lui avesse un buon Natale, dovunque sia, quindi per favore, ti chiedo di portare questa medaglietta che ho comprato al negozio qui di fronte, direttamente a lui, al mio caro nonno. C’è disegnato sopra un Alpino, sono sicuro che gli sarebbe piaciuta.

Ti voglio bene,

R.

Quale incredibile testimonianza aveva incrociato il uso percorso, rimase a chiedersi Tairin. E ancora faticava a comprendere, perché non conosceva il significato di “Famiglia”, né tanto meno di quel misterioso “Natale”, di cui aveva solo letto. Una seconda lettera seguiva alla prima. Tuttavia la calligrafia era quella di un adulto, la cui penna portava il fardello dell’esperienza, ma che da questa traeva la sua forza e così scriveva:

Caro R.

Da dove incominciare…  Probabilmente non mi conosci, ma io sì. Ho saputo della tua storia da tuo zio, sono passati otto Natali da allora. Sono convinto che le nostre storie siano legate, in fondo anche io ho perso mio nonno da giovane… Speravo di poterti incontrare per scambiare quattro chiacchiere, magari al Chocolate Bar di Green Square, so non c’è niente di meglio che sorseggiare una cioccolata calda al riparo dal vento di questa fredda stagione. Purtroppo le mie ricerche non mi hanno portato a te, ma spero almeno che queste parole possano in qualche modo raggiungerti.

Dunque, hai mai pensato al perché a Natale si ricorda i famigliari scomparsi? Eppure dovrebbe essere una ricorrenza che celebra la nascita come da tradizione. E non è forse il regalo un augurio che il dolore lasci spazio alla gioia, le luci sono un segno di speranza e di calore, non è quindi questa una contraddizione? 

Lascia che ti dica cosa penso: Famiglia e Natale sue due cose speciali. Il legame famigliare che lega i parenti fin dalla nascita spiana la strada all’amore assoluto, che non sempre accade ma è solito accadere. D’altro canto il Natale crea un’atmosfera mistica che accentua ogni emozione. E queste cambiano l’ambiente circostante facendo la differenza in sé stessi nel prossimo. Nel prossimo perché ci avvicina di un poco a chi non conosciamo, e ci fa cadere nelle braccia di chi è sempre stato vicino.. In sé stessi perché ci fa ritrovare le cose semplici con un rinnovato sguardo, ricordare i Natali passati, tornare ad essere bambino.

Ecco vedi, anche il tuo Natale ha cambiato i miei! Ho riflettuto sullo stesso dolore che ci accomuna.. e ho realizzato quanto fosse dolce soffrire.

Significa amare ancora chi ci ha amato. 

Ma il segreto è che non c’è bisogno di una Famiglia per provare l’amore più profondo, né di un Natale per esprimerlo. 

Un forte abbraccio,

A.

Tairin prese qualche minuto per riflettere. Prima che se ne potesse accorgere, una lacrima segnava la lettera.

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